Donne e Islam. “Alla mia età mi nascondo ancora per fumare” in scena al Carcano

Commento e intervista alle attrici del Teatro Ringhiera, dirette dalla sapiente regia di Serena Sinigallia. Al teatro Carcano dal 15 al 25 novembre.

 

Milano, 21 novembre 2018 –  Immaginate di essere una bambina. State giocando coi vostri cuginetti a palla in strada, sotto casa. Vostra madre vi chiama per la cena, quindi salutate gli amichetti e rientrate. Mentre vi sedete a tavola lei si accorge che quella mattina avete scordato di indossare le mutandine: la vostra “vergogna” è lì, sotto i suoi occhi, così come probabilmente lo è stata fino a pochi minuti fa, sotto quelli dei vostri compagni di pallone. Immaginate che vostra madre, allora, anziché mandarvi in camera a vestirvi con un rimprovero tra l’imbarazzato e lo scocciato, si avvicini alla mensola della cucina e prenda il vasetto della paprika. Per infilarvela nella vagina. Come punizione.  Forse è troppo difficile da immaginare, così come difficile è pensare, ad esempio, che a cinquant’anni una donna sia costretta a nascondersi per poter fumare. E non perché il marito e i figli la si preoccupino per la sua salute; ma perché, lo sanno tutti, una donna che fuma in pubblico è una puttana.

Se foste una donna algerina non sarebbe necessario nessuno sforzo di immaginazione, perché tutto ciò (e molto altro) farebbe parte della vostra quotidianità. È forse a causa di questa, seppur dolorosa, appartenenza  alla realtà a cui dà voce, che Rayhana, pseudonimo dell’autrice algerina di “Alla mia età mi nascondo ancora per fumare”, riesce a farcela raccontare con naturalezza, leggerezza, persino con ironia, dalle sue otto protagoniste; che coglie nell’unico momento di libertà concesso loro durante la settimana, ossia la visita all’hammam. Dimenticatevi quindi pesantezza, patetismi esagerati o toni di retorica solennità: lo spettacolo – eccetto per qualche scena, del resto è una tragicommedia – scivola via lieve, nonostante l’urgenza dei temi affrontati e la tragicità dei vissuti di quasi tutti i personaggi. Verrete immersi nell’universo femminile di otto donne, la tenutaria dell’hammam, l’assistente e le sei frequentatrici, che scoprirete così diverse e insieme così simili a noi donne occidentali.

In questo spettacolo si parla di sesso – e in maniera molto più esplicita di quanto non siamo abituati persino noi nei nostri teatri – di masturbazione, di divorzio, di spose bambine, di università, di terrorismo, di integralismo. E di uomini, quasi sempre male, con un rancore feroce e disilluso. Di loro, in scena, nemmeno l’ombra; ne arrivano solo, un’eco riportata dalle protagoniste, le urla rabbiose dal di fuori, a violare quel piccolo momento liberatorio di intimità.

Insomma, un testo pregno di contenuti scottanti e scomodi, che sono costati all’autrice un’aggressione da parte dei Fratelli Musulmani mentre usciva da teatro, nella Francia in cui ora vive sotto scorta; autrice la quale, oltre ad averlo scritto, lo spettacolo lo ha anche messo in scena e ne è stata attrice.

Francesca Sinigaglia e le attrici dell’Atir, con la passione per il teatro sociale che da sempre le contraddistingue, oggi orfane del teatro Ringhiera e costrette a una stagione on the road, rendono omaggio al coraggio di Rayhana riportando lo spettacolo per la terza volta in scena, con delle nuove attrici a coprire alcuni ruoli. È con qualcuna di loro che dialoghiamo di questa nuova edizione dello spettacolo, in scena al Teatro Carcano fino al 25 di novembre, e di questo ideale passaggio di testimone tra Rayhana e la loro compagnia.

Assieme parliamo di vicinanza e di distanza: vicinanza, che è anzi identità, tra chi ha scritto il testo e il mondo a cui in esso si dà vita; distanza, tra chi quel testo lo deve recitare e con quel mondo, in quanto donna occidentale, non ha nulla a che vedere. Ma anche, vicinanza tra tutte le donne, con gli ostacoli che incontrano nella società in cui si trovano, al di là della nazionalità di appartenenza. E distanza, quella del pubblico occidentale: con il pericolo che si stigmatizzi in toto una cultura che viene qui raccontata nei suoi risvolti più negativi e nei suoi aspetti più cupi. Pericolo da cui tuttavia sottrae la problematizzazione a cui nel testo sono sottoposte le situazioni anche apparentemente più lineari, delle quali si dà conto in ogni sfaccettatura, senza semplificazioni di comodo. È questo ad esempio il caso di Zaiha, il difficile personaggio dell’integralista musulmana che la regista ha affidato a Chiara Stoppa. L’attrice, nel descrivere la costruzione del personaggio, sottolinea lo sforzo fatto nel senso di una sua umanizzazione: “Pur nel suo fanatismo, nel suo essere invasata da un’idea di religione per noi assurda, io e Serena non volevamo cadere nella banalizzazione e costruire il personaggio della cattiva con la C maiuscola”. Nel testo originario, Zaiha a un certo punto si redimeva, schierandosi in difesa di quella che, seconde le sue convinzioni, è un’infedele e come tale va punita; in seguito l’autrice, sicuramente disillusa e arrabbiata per il sangue che negli anni i Fratelli Musulmani hanno proseguito a spargere nel mondo islamico, ha modificato la trama negando alla donna qualsiasi possibilità di fuoriuscita dal suo estremismo. “Nonostante questo, abbiamo lavorato per renderla meno monolitica, e, ad esempio, nel litigio con la progressista e divorziata Nadia, abbiamo fatto in modo che fosse proprio la seconda ad agire per prima in modo aggressivo e ad assumere un atteggiamento intollerante e di totale chiusura. Le altre escludono Zaiha, la temono come un’aliena: eppure anche lei ha una storia di sofferenza e di soprusi alle spalle, un percorso che l’ha portata ad essere come è. Come amo dire, tutti nasciamo bambini”.

Ai diversi modi di interagire con Zaiha corrispondono i diversi atteggiamenti assumibili da parte dell’Islam moderato verso quello che la Stoppa definisce “Islam nero”. Da una parte la chiusura totale, che è quella di Nadia, che dà una risposta di lotta violenta alla violenza; dall’altra la ricerca di un dialogo, di comprensione della ragioni e di mediazione. “Noi non diamo in scena risposte su quale delle due possibili posizioni sia quella giusta. Io stessa non saprei dove collocarmi”, chiarisce Stoppa. Uno spettacolo e una regia che non cercano di dare risposte, dunque, ma che si prefiggono l’obbiettivo di stimolare delle riflessioni; l’idea di teatro della Senigaglia non implica infatti la dispensazione di presunte verità, ma che lo spettatore venga pungolato a una ricerca.

Proprio a proposito degli spettatori, alla domanda su chi piacerebbe loro veder seduto tra il pubblico, Marcela Serlia, che in scena impersona la disincantata ma generosa tenutaria dell’hammam, si accende: “Vorrei vedere esattamente Il pubblico del Carcano. Che è un pubblico che va a teatro per distrarsi, per rilassarsi, divertirsi. Ecco il pubblico che vorrei. Ah, e vorrei vedere gli uomini”. Ma ce ne sono, di uomini, in platea? Per questo spettacolo in cui per il loro sesso non c’è alcuna pietà; dei quali si dice, certo in un eccesso – pur legittimissimo – di livore: “Ma del resto, cos’è un uomo? Uno stomaco e un cazzo”. “Ce ne sono, ce ne sono” assicura la Stoppa, “ma quelli che ci sono li definirei illuminati. Purtroppo è sempre così, che a teatro e a vedere certi spettacoli va sempre chi meno ne avrebbe bisogno. Però mi piacerebbe che gli uomini che ci vedono si rendessero conto di quanto possa la tanto citata solidarietà femminile, che in questo spettacolo gioca un ruolo fondamentale, e quanto forte possa essere una donna calata in un contesto che le è in tutto e per tutto ostile”. Proprio come in Algeria, dove le donne devono far quadrato e lottare persino per indossare un bikini in spiaggia, perché altrimenti in spiaggia potrebbero subire le aggressioni di coloro che si autodefiniscono i preservatori della moralità. Lì, per essere una donna ci vuole molta forza. La stessa con cui arriva scambio di battute tra Samia, la giovane inserviente dell’hammam (una deliziosa e candida Irene Serini) e la tenutaria: – A stare qui, con voi, mi sento forte come un uomo.

-Come una donna, – le risponde Fatima – come una donna.

 

 

                                                                                                Alice Mosca, “Così è la radio (se vi pare)”, Radio Statale