Intervista a Alessandro Marini e a Daniele Marmi, stasera alle 21.00 in scena al Teatro PIME di Milano con “La commedia degli errori” di W. Shakespeare

Un’intervista di Così è la radio (se vi pare), programma di RadioStatale
Domande a cura di Simone Santini e Stefania Guglielmi

Spesso è già difficile interpretare un personaggio, voi in questo spettacolo addirittura vi cimentate con due ciascuno. Cosa avete provato a portare sulla scena due figure diverse nello stesso dramma?

Il fatto di interpretare più personaggi sicuramente è una sfida, a livello soprattutto di tenuta fisica. Dal punto di vista dell’orientarsi all’interno di un’ interpretazione, invece la è fino a un certo punto, nel senso che comunque per noi recitare significa sempre essere coerenti con la propria presenza, essere continuamente autori della propria presenza e della relazione con il partner in scena. Quindi stare dentro un personaggio o nell’altro vuol dire alla fine solo stare dentro un contenitore diverso, ma la sensazione, gli obiettivi e il gioco restano sempre gli stessi.

Questa commedia è una storia di doppi e perdite d’identità. Cosa vuol dire parlare oggi di questi temi?

Per noi il tema del doppio, per come lo intendeva ancora Shakespeare e soprattutto per come lo intendeva Plauto in origine, è un po’ superato, nel senso che per noi parlare di doppio al giorno d’oggi, o comunque parlare di perdita, di crisi d’identità, significa parlare appunto di una crisi, e quindi nel nostro allestimento abbiamo preso certamente le mosse dal gioco comico plautino (che poi Shakespeare raddoppia aggiungendo un’altra coppia di gemelli), ma ci siamo spostati verso un’indagine un po’ più contemporanea di questa crisi d’identità, quindi verso i temi che ci interessano e di cui sentiamo parlare molto più spesso che dello scambio di due gemelli, temi che sono la perdita dell’identità e di sé stessi. Tra l’altro, studiando questo testo, nonostante sia ritenuto la prima commedia scritta da Shakespeare, abbiamo riconosciuto che è stato proprio scritto dallo stesso signore che ha scritto Amleto, e quindi si riconoscono qua e là già i semi di ciò che Shakespeare poi affronterà nei suoi drammi ben più noti e più interessanti, tanto che nella nostra libera interpretazione drammaturgica abbiamo inserito citazioni da Amleto o da altri testi shakespeariani.

Per questa produzione avete lavorato con Eugenio Allegri, un regista che è passato da Novecento alle opere del Bardo. Com’è stata la vostra esperienza artistica con lui?

Abbiamo lavorato con Eugenio Allegri in realtà perché questo progetto era un sogno che rincorrevamo  e su cui io e Daniele lavoravamo da molto tempo, riadattando e tagliando il testo proprio su noi due. Ma ad un certo punto, quando è arrivato poi il momento di metterlo in scena, nonostante avessimo ben chiaro quello che era il gioco (avevamo già scelto molte musiche e avevamo già abbastanza in mente l’intento della nostra messa in scena e anche un po’ il taglio), ci siamo resi conto che non riuscivamo a stare in scena né a seguirci da fuori: il gioco non era più un gioco ma diventava un po’ una gabbia claustrofobica. Abbiamo parlato con Eugenio e abbiamo chiesto a lui di darci una mano, almeno di vederci da fuori, e ovviamente è successo che lui ha accettato di fare proprio la regia, perché era naturale che succedesse così. La cosa che possiamo dire di Eugenio Allegri è che noi lo conosciamo molto bene, dal momento che io e Daniele Marmi ci siamo conosciuti nel 2011, proprio lavorando diretti da Gabriele Vacis sui Rusteghi di Goldoni, nel cui cast c’era anche Eugenio: conoscendolo molto bene sapevamo quindi che era la persona perfetta, non  solo perché è un grandissimo professionista e l’artista immenso che tutti conosciamo, non solo perché nelle sue corde sono presenti quelle idee di gioco e fantasia che sono poi il nostro modo di fare teatro, ma sopratutto perché sapevamo che dal punto di vista umano Eugenio ci conosceva molto bene, e conosceva molto bene il rapporto che avevamo io e Daniele. Eugenio si è inserito in questo lavoro come una sorta di arbitro, capendo le cose che già io e Daniele avevamo già deciso e volevamo con determinazione e intervenendo invece dove c’era bisogno invece di un po’ di sapienza e in generale dando una grande organizzazione al testo, sia da un punto di vista drammaturgico (lui è intervenuto in maniera molto autorevole sul testo) sia ovviamente per quanto riguarda la stessa messa in scena (a un certo punto ci siamo con gran semplicità affidati a lui). La cosa più interessante è questa sinergia che si è creata tra un sogno che avevamo e che abbiamo raccontato molto bene e il suo intervento che c’è stato solo dove era necessario, quindi senza avere vanità o ambizione registica ma curando e portando in porto il lavoro che io e Daniele avevamo impostato.

Dal vostro incontro con l’opera di Shakespeare nasce il desiderio di metterla in scena, ma da dove nasce la scelta di riadattare il testo originale per due soli attori? Quali sono le difficoltà ma anche gli stimoli nuovi che sono derivati sia dall’adattamento che dalla messa in scena?

Come tutti gli attori, io e Daniele conosciamo molto bene e amiamo l’opera di Shakespeare, ma questo spettacolo nasce principalmente da me e Daniele, dal nostro rapporto: sostanzialmente la Commedia degli errori è un pretesto per giocare in scena io e lui, per fare quello che ci piace di più, e cioè fare il teatro insieme. Il testo era conosciuto molto meglio da Daniele, che l’aveva esplorato già negli anni della sua formazione: lui poi me l’ha sottoposto e siamo stati ben felici di metterlo in scena avendoci trovato dentro molti appigli, che poi sono gli appigli insiti in un testo che, basato sul tema del doppio, sviluppa una sorta di sistema binario della drammaturgia, drammaturgia che è stata da noi organizzata in modo tale che potesse reggersi con noi due stando in scena. Abbiamo creato una sorta di sistema tripolare in scena, tale per cui un appartenente alla coppia incontrava un terzo “esterno”, magari straniero. A questo punto uno di noi due si sganciava dalla coppia per interpretare il terzo personaggio, e così siamo riusciti, a quanto pare, a portare a termine uno spettacolo che non nasce tanto dall’amore per Shakespeare quanto dalla volontà di giocare insieme.